Divagazioni su alcune sculture di Emanuele Greco.
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"L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia"
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
La scultura di Emanuele Greco si divide ultimamente tra il grande e il piccolo.
E’ richiamo fatale per uno scultore misurarsi prima o poi con la dimensione monumentale che è stata per secoli quella scultorea; lo sforzo sta nel saperla incardinare nel tempo presente, nelle sue contraddizioni e problematiche irrisolte. Peraltro l’occhio attento sa anche vedere il grande nel piccolo ed è ciò che succede nelle potenti petites formes dell’artista.
Il gesso cavo « Disincanto dei tempi moderni » (80 cm. di altezza) è anonima testa di un uomo che pare aver attraversato secoli di olimpica razionalità e ora, derubato d’ogni illusione compresa quella estetica, si mostra interrogante nella sua condizione di precarietà. La sua monumentalità va perciò declinata nel senso latino di testimonianza che oggi non può riferirsi a personaggi o fatti storici ma a quel fondo esistenziale che non ha età né luogo. Ecco allora che il piccolo « Etrusco » (cm. 20) ne è antenato e fratello : il volto poco ferino – gli Etruschi avevano fama d’esser terribili, come i loro segreti –, le sopracciglia corrugate, la bocca in una piega amara, lo sguardo immobile ne fanno un contemporaneo che contempla lo scorrere del tempo conscio del nulla che attende ogni era, persona, cosa ; gli si confanno i taglienti e ferali quanto dolorosi versi dell’ultimo Montale([1]) : Non c’è stato nulla, / assolutamente nulla dietro di noi, / e nulla abbiamo disperatamente amato più di quel nulla.
Unisce le due opere citate la nostalgica certezza di quell'oltre che non c’è, il rispetto del mistero inverato nella perfetta inesattezza dell’arte. Le maggiori testimonianze degli Etruschi sono necropoli, modo etrusco di sconfiggere la iattura della morte; costoro si costruivano un dopo quanto più simile al prima come antidoto alla solitudine - anche se il piacere del ritorno in una dimora in tutto analoga a quella in cui avevano vissuto è chimerico - con oggetti domestici e coppie serene sul loro kliné e Greco ce le ripropone in dimensioni ridotte, orfani di quel sorriso arcaico un po’ beffardo al di sopra delle umane tristezze così evidenti invece nell’opera di Emanuele. Ha scritto Alberto Savinio che gli Etruschi sono i nostri padri romantici se consideriamo che « l’anima romantica desidera quello che non ha e tende a staccarsi dal reale e anche dalla terra » ([2]) : simbolicamente staccate da terra tramite esili aste sono molte sculture del nostro artista, soprattutto figure femminili distese e cavalli, animali che sono una sua vera passione.
Greco attinge all'antico come immenso patrimonio di immagini per un discorso sull'oggi che non può prescindere da tanto passato senza però che questo diventi un invadente laccio formale. Una delle figure che più mi affascinano è un Centauro (bronzo di 15 cm), un condensato segnico senza tempo. Di centauri è piena la storia dell’arte e della letteratura per il fascino di tale forma ibrida tra hybris e saggezza che ben si presta a rendere la condizione drammaticamente scissa dell’uomo di oggi. Nei Dialoghi con Leucò Cesare Pavese ne dedica uno (Le cavalle) al dialogo tra Ermete Ctonio e il centauro Chirone che ad un certo punto dice al dio: « Cosa sono i mortali se non ombre anzitempo? ». Il Centauro di Greco è, nello splendore della sua forma, venato della stessa mestizia, così vivo se confrontato con il gigantesco « Centauro » a Pietrasanta dello scultore polacco Mitoraj che riformula il gigantismo ellenistico e romano nell'ostentazione magniloquente di pezzi “archeologici”, rinunciando al mondo per “vivere nel mito”, ha dichiarato. Nel lavoro mignon di Greco il mito sprofonda nei recessi lontani della sua ispirazione e riaffiora solo a confronto con la presente quotidianità; l’incerta condizione del suo Centauro, dubbioso sulla efficacia della propria forza fisica, fragile nonostante quella, sottolinea appunto tale risalita da un angolo di sé, parvenza e accenno a qualcosa che forse non è mai esistita e sta solo dentro di noi, dice interrogandosi.
La nostalgia o doloroso ritorno alla casa della scultura ha in Greco un fondo epico nei confronti dell’esistenza come dell’arte: una sfida condotta nella perseveranza del lavoro quotidiano che non contempla necessariamente la vittoria, ma ribadisce il gramsciano “ottimismo della volontà” e dà senso all'esistenza.
[1] Eugenio Montale, In negativo, in Quaderno di quattro anni, 1977
[2] Albero Savinio, Dico a te Clio, 1946
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Fulvia Giacosa